Anche la comunità del Seminario Arcivescovile vive la giornata del Dialogo Ebraico-Cristiano e le Giornate Ecumeniche 2017 all’insegna della sensibilizzazione, della conoscenza reciproca e della prospettiva di dialogo costruttivo, secondo quell’amore che non può che spingere verso la piena riconciliazione (2 Cor 5,14-20).Per conoscere meglio anche i Riti Orientali, in particolare, nella giornata di giovedì 19 gennaio la comunità del biennio ha partecipato ad una celebrazione secondo il rito della Chiesa Apostolica di Antiochia dei Siri, chiesa in comunione con la chiesa cattolica ma con Rito proprio.La divina liturgia è stata presieduta da padre Jihad Youssef, monaco della comunità monastica di Deir Mar Musa in Siria, fondata da padre Paolo Dall'Oglio.Ulteriori info alla pagine Facebook qui sotto.
https://www.facebook.com/SeminarioMilano/?hc_ref=PAGES_TIMELINE
Iniziamo in nostro percorso di riflessione dai fratelli ebrei, riportando di seguito l’intervento di don Massimiliano Scandroglio, docente di Sacra Scritture e conoscitore del mondo ebraico, tenuto nell’omelia della S. Messa di lunedì sera 16 gennaio, precedente la XXVIII giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano:
La Giornata del dialogo ebraico cristiano, che sarà celebrata domani, ci aiuta in estrema sintesi a riscoprire la natura più vera e più intima della Chiesa, nella sua relazione strutturale con il mistero di Israele, popolo dell’elezione. Mi pare ormai patrimonio acquisito della riflessione ecclesiologica non pensare più alla Chiesa secondo il cosiddetto principio “sostitutivo”: la Chiesa come “nuovo” popolo di Dio … supponendo che l’antico sia decaduto, abbia perso i suoi privilegi, e sia stato pertanto “sostituito” … (Sinodo diocesano 47° sul tema si esprime così in maniera molto chiara, parlando proprio di questa Giornata: I pastori educhino la comunità cristiana a riconoscere il ruolo singolare di Israele nella storia della salvezza, e a non intendere la Chiesa in termini sostitutivi o antitetici al popolo ebraico) Il tentativo oggi della teologia è semmai quello di ripensare questo rapporto, perché diventi chiaro come la Chiesa senza Israele non si può pensare; la Chiesa non può comprendere se stessa a prescindere dal mistero che Israele rappresenta … perché perderebbe qualcosa della propria identità, oltre che della propria storia. E a riguardo sapete – almeno quelli che hanno fatto il corso di Vangeli – come in proposito mi piaccia parlare della Chiesa secondo questa definizione: La Chiesa costituisce il resto credente di Israele … così era e si pensava anzitutto la Chiesa degli apostoli (cf resoconto di At), e così dovremmo pensarci anche noi, se vogliamo custodire – fra le altre cose – il tratto distintivo della “apostolicità” (“apostolicità”, che implica anche il modo corretto, “apostolico” da parte della Chiesa di intendere la propria relazione con il popolo della prima Alleanza). La Chiesa è dunque la comunità che riconosce in Cristo – figlio di Israele – il compimento di quella storia di salvezza che ha visto questo popolo particolarmente protagonista e, nel contempo, beneficiario … e questo a vantaggio di tutte le nazioni, come sta scritto nelle primissime pagine della Scrittura: In te [Abramo] si diranno / si riconosceranno benedette tutte le famiglie della terra.
– Fatte queste prime precisazioni possiamo interrogarci allora più nel dettaglio sul significato di questa iniziativa, che magari – ce lo diciamo in tutta onestà – non intercetta subito la nostra sensibilità (già si fatica talvolta a “sentire” la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani!). È chiaro che il dialogo con il mondo ebraico non presenta le medesime caratteristiche e finalità del dialogo interconfessionale, dove – ad esempio – l’obiettivo ultimo dichiarato è il ripristino della piena comunione fra le Chiese … ma nel caso degli ebrei, cosa possiamo dire?
* Anzitutto il dialogo interreligioso – in generale – e quello con il mondo ebraico – in modo particolare – punta ad una conoscenza migliore dell’altro … per conoscere alla fine meglio anche se stessi. Nel rapporto con l’ebraismo questo primo obiettivo è essenziale, perché la Chiesa – come ricordavamo poco fa – non si è mai considerata – almeno all’inizio della sua storia – come realtà altra rispetto al popolo eletto, ma come componente a pieno titolo del popolo dell’alleanza … e se poi si è consumata una rottura insanabile sono state principalmente ragioni storiche e culturali a determinarla. Dunque il dialogo con il mondo ebraico consente a noi cristiani di recuperare la coscienza di un’appartenenza originaria, + che non semplicemente quella di un legame, per quanto privilegiato. Noi, in quanto credenti in Cristo, siamo parte di Israele! Noi nutriamo la convinzione che l’appartenenza al pop dell’elezione si compie proprio nel riconoscimento del Cristo, e non a prescindere; la vocazione del popolo dell’elezione trova nel Cristo e nella sua Pasqua il suo compimento eccedente!
* In secondo luogo il dialogo – se ben fatto, con le giuste premesse e il giusto stile – permette nella conoscenza dell’altro di giungere ad un suo sincero apprezzamento; in qualche misura di “mettersi alla sua scuola” … perché l’altro ha sempre qualcosa di buono da insegnarmi! Allora, cosa possiamo apprezzare in particolare dell’ebraismo e del suo modo di vivere la relazione con Dio? Due tratti che mi paiono significativi … I) Rispetto assoluto per la santità di Dio. Penso che non ci sia bisogno di troppe parole per chiarire il concetto, visto che un po’ di conoscenza del mondo biblico ce l’avete tutti … L’israele vive i suoi giorni all’ombra della santità di Dio; quella santità che anche al grande Mosè (cf lett. Sir) viene mostrata, ma solo in parte, perché si tratta pur sempre di un mistero che non è mai alla portata dell’uomo; quella santità che alla fine non può che essere mediata, non può che essere sperimentata all’interno di una mediazione (sempre nel ns caso, quella mosaica), proprio perché dono, non possesso o conquista. E questo è qualcosa che noi cristiani dovremmo con tutta umiltà riscoprire; noi che nell’Incarnazione abbiamo conosciuto e sperimentato un “Dio vicino”, non possiamo permetterci il lusso di dimenticare che sempre del Dio tre volte santo si tratta!
II) Primato della speranza nel modo di guardare alla (propria) storia. Su questo lascio per un momento la parola al card. Martini; si tratta del passaggio di un suo contributo, proprio sui rapporti fra mondo ebraico e mondo cristiano … Scrive così: La creazione, secondo il commento di Rashi a Genesi, è orientata alla Torah e a Israele. Dio creò il mondo per amore della Torah, e per amore di Israele. Israele è dunque consapevole di essere un popolo separato per il servizio sacerdotale, consacrato per guidare tutti i popoli alla perfetta obbedienza e all’amore di Dio. Perciò l’ebraismo non può disperare della fedeltà di Dio, è prigioniero della speranza. Nonostante la fedeltà di Dio all’alleanza e all’amore per il suo popolo, Israele ha rischiato più volte, nel cammino della storia, di essere eliminato e si è trovato spesso in condizioni di inferiorità e di persecuzione. Come vanno interpretati questi avvenimenti senza cedere alla disperazione? Le reazioni degli ebrei di fronte a queste tragedie furono, di volta in volta, diverse: talora ne cercarono la causa nella disobbedienza alla legge; in altri momenti accusarono l’ingiustizia dell’uomo; oppure cercarono conforto adorando, in silenzio, l’incomprensibile mistero di Dio. Ma – al di là di questi tentativi di spiegazione – la speranza continua a brillare sul sentiero del popolo ebraico attraverso la storia, perché questa storia è abitata da una promessa affidabile.
– In questa Eucaristia preghiamo dunque per il popolo ebraico, perché – come dice anche la preghiera universale del Venerdì santo – possa progredire sempre nell’amore, nel rispetto del nome di Dio e nella fedeltà (solida, matura) alla sua alleanza. E preghiamo anche per noi, discepoli dell’ebreo Gesù Cristo, perché possiamo non perdere mai di vista le nostre “gloriose radici”: come l’albero senza radici non sta in piedi e muore, così anche la Chiesa senza le sue radici perde la propria identità e il senso della propria missione.