In esclusiva, in occasione dell’Anno della vita consacrata, una riflessione e testimonianza in particolare sull’esperienza contemplativa di suor Cristiana Maria Dobner, carmelitana scalza che vive in clausura nel monastero “Santa Maria del Monte Carmelo” a Concenedo di Barzio

di Suor Cristiana Maria Dobner
Saggista, filosofa e teologa

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Saggista, filosofa e teologa, è studiosa di ebraismo, insegna greco-biblico ed ebraico alle novizie, e collabora a distanza con varie testate cattoliche. Ecco in esclusiva per i lettori de La Fiaccola, in occasione dell’Anno della vita consacrata, una sua riflessione e testimonianza in particolare sull’esperienza contemplativa.

Il mistero di ogni chiamata al servizio di Dio rimane sempre un mistero. Non è un gioco di parole, è una realtà che si può solo constatare, osservare e accettare. La relazione della persona con il Dio che le si rivela e che compie sempre il primo passo, può affascinare, turbare o catturare.

Talvolta anche essere sommersa da altri interessi. La parabola evangelica del seme che cade in diversi terreni lo insegna autorevolmente. Se dalla consacrazione a Dio della propria vita ci si inoltra nel terreno contemplativo di un’esistenza spesa in monastero, tutto acquista una luce più problematica che richiede un’attenta riflessione. La contemplativa e il contemplativo brillano per il “non fare niente”, appaiono immediatamente come i parassiti di una società in cui conta l’efficienza, la resa. L’inutilità è l’aspetto più evidente. Questo sguardo sfiora la superficie e la sfiora male.

“Non far niente” conosce un risvolto visibile e una profondità da scandagliare. Il risvolto visibile è la Liturgia delle Ore che scandisce la giornata e si immette nella vita della Chiesa intera, che si rivolge orante, per tutta l’umanità, al Padre, che glorifica nella sua bontà e nella sua misericordia.

La profondità è il tempo dedicato solo a Dio nella preghiera silente, l’orazione in termini carmelitani, all’alba e al tramonto, quasi a racchiudere la propria giornata in un grembo di lode a Dio e di supplica intercedente per l’umanità. I due aspetti però prendono vita dalla celebrazione eucaristica, dalla morte, Passione e Risurrezione di Gesù Cristo. Questo il punto incandescente che pervade il pellegrino o la pellegrina della Salita del Monte Carmelo.

Testimoni viventi del Risorto, non condannati a un perimetro di terra da cui non possono svincolarsi ma testimoni in ascolto della Parola che li attraversa e si diffonde dovunque. La certezza che regge il monaco e la monaca è quella dell’ubiquità: nel “non far niente” istituzionale, programmatico ed efficiente, si inserisce la dimensione dell’irradiazione.

La possibilità per l’orante di collocarsi dovunque, da qui l’espressione ubiquità, dovunque ci sia bisogno
per aprirsi al Volto di Dio e al volto dei fratelli e delle sorelle. Un’apertura sull’Infinito che ricade sul finito, sulla creatura che scopre di essere amata e di poter compiere il passaggio terreno con il Signore Gesù. “Non far niente”, considerato dall’ottica del monaco e della monaca presenta un aspetto che, abitualmente, sfugge: l’operosità che struttura ogni giornata monastica.

Eccone i pilastri: la preghiera liturgica e l’orazione; il lavoro e lo studio. Per una carmelitana all’interno di quello che pare un ossimoro: eremita ma insieme alle sorelle. L’equilibrio, tarato da secoli, e innervato
dalla sapienza della Fondatrice, Teresa di Gesù, “madre degli spirituali” e Dottore della Chiesa, è la griglia di riferimento per l’articolarsi dei tempi spesi nella propria cella e quelli spesi insieme alle sorelle.

In un lavoro semplicemente domestico che sostiene la famiglia monastica e in un lavoro che, rispettoso, dell’identità carmelitana, dica che siamo povere e dobbiamo guadagnarci da vivere. Insieme con una fiducia costantemente rinnovata al Padre Provvido che supplisce sempre con generosità e giunge dove  noi mai riusciamo a giungere.

La vita contemplativa tesse costantemente la relazione con il Dio Trinità e rimbalza sulla relazione fraterna, quella spicciola di ogni momento. La profuma di quel “non ancora” cui tendiamo, perché  facciamo esperienza del “già”. Lo studio fonda con serietà la fede riflessa e la porta a contatto con la dottrina della Chiesa, con la teologia che si impasta  di ragione e di fede e dona all’eremita delle fondamenta impostate nella grande tradizione che ci precede ma che richiede sempre di essere confrontata con l’oggi della vita ecclesiale.

Se però, da questa misteriosa vita contemplativa non traspare la gioia, probabilmente siamo dinnanzi ad una caricatura o a un residuo da purificare. Testimoni del Risorto a denti stretti non lo si può essere, perché l’animo deve essere dilatato per accogliere lo Spirito. Anche i momenti difficili o drammatici che ogni vicenda umana comporta, letti sotto questo profilo, fanno comprendere come in ogni amarezza o tristezza il Padre è chino su di noi soffrendo Lui stesso amarezza e tristezza. Non ci abbandona però a un sentire cupo o depresso, ci vuole figli e figlie gioiose e per questo ci indica la sua Presenza che trasfigura e ci fa certi di dirigerci, passo dopo passo, alla Sua Casa.

Il monastero, se si raccoglie nel silenzio e nella solitudine, non per questo è isolato, ritagliato dal suo contesto geografico e storico preciso. Al contrario, è sentinella sensibile di quanto accade e lo fa suo proprio, lo porta dentro di sé e nell’alchimia dell’amore chiede l’intervento del Padre per sanare, guarire, consolare. Il Testimone del Risorto quindi “fa” ma sprecandosi gratuitamente, con lo sguardo gioioso rivolto alla gloria di Dio e alla pace nel mondo.