Pubblichiamo gli spunti di meditazione che hanno aperto al Quadriennio Teologico il periodo di preparazione alla Pasqua, presentati da don Marco Crippa, attuale padre spirituale di III teologia.
L’abitudine ci fa mettere il verbo “rendere” o “dare” alla frase che fa da titolo alla Quaresima 2017.
Di fatto però, nel titolo, il verbo non c’è; ci sono tre puntini di sospensione, per ricordarci che è possibile, anche senza saperlo, mettere altri verbi al posto di “rendere”, il verbo effettivamente usato da Gesù.
Per esempio – e la storia è vecchia quanto il mondo – capita di mettere una “p” davanti al verbo rendere, e si cade nel peccato di origine, quello che ha rotto l’alleanza d’amore con Dio e ha costretto Adamo ed Eva a nascondersi davanti a Dio: “sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”, dice il serpente. Prendere a Dio, quello che è di Dio.
Il delirio di onnipotenza non è poi così assente da certi nostri modi di essere e di fare, dal modo con cui ci si percepisce o ci si pone davanti a Dio e agli altri.
Oppure, più in profondità, c’è la tentazione di prendere a Dio il primato della chiamata, per cui non si rimane in ascolto di ciò che è la sua volontà, ma si parte da sé per auto-chiamarsi a qualcosa che piace ed è secondo il proprio gusto o la propria sensibilità. Quando non c’è discernimento a partire dalla Parola, rimane l’orientamento secondo i propri gusti.
Gli esempi possono moltiplicarsi. Accenno solo a ciò che riguarda la preghiera.
Arriva la tentazione (ed anche la pratica, purtroppo) di prendere a Dio il tempo che, in realtà, è suo, perché la preghiera è il tempo che Dio ha per compiere la sua opera in noi. Lo facciamo anche con diverse giustificazioni (pastorali, relazionali, personali…), tutte vere ma molte non collegate alla carità.
La sottrazione del tempo a Dio ha un nome preciso: non lasciarsi scomodare da Lui. “Dio ha i suoi tempi… ma detto i miei; Dio ha la sua opera da compiere in noi… ma preferisco la mia opera e le mie cose; non riesco a seguire i tempi della preghiera comunitaria o personale, ma la colpa è dei tempi della preghiera perché non rispettano i miei programmi…”. Alla radice di questi pensieri sta la paura di lasciarsi scomodare da Dio.
Capita anche di sostituire i puntini di sospensione con il verbo “negare”.
Lo ha fatto il popolo di Israele in uscita dall’Egitto: muovendosi verso una terra di libertà e di promessa, rimpiangeva le cipolle d’Egitto, l’acqua fresca, il pane profumato appena cotto, negando a Dio (in una sorta di ateismo pratico) la sua azione liberatrice. Sotto la guida del Liberatore, il popolo vuole tornare in schiavitù.
La stessa accade ai discepoli sul Lago di Galilea, durante la tempesta: gridano a Gesù che sono perduti. Anzi si arrabbiano perché Gesù dorme. Gridano che non c’è più speranza, neppure con lui a bordo. Sono perduti… E lo gridano proprio a Colui il cui nome è: Il Signore salva.
Oppure ai piedi della croce, quando viene gridato a Gesù di salvare se stesso, mentre lui non è venuto a salvare se stesso ma a dare la vita per amore.
Capita dunque di negare a Dio, quello che è di Dio; di impedire a Dio di essere se stesso nella sua azione di grazia nei nostri confronti. Ed accade più di quanto possiamo immaginare.
Che il Signore non ci possa risollevare dalle nostre cadute e dai nostri peccati; che non possa essere forza nelle nostra debolezza (a chi o a cosa ci aggrappiamo nei momenti di difficoltà o di crisi?); che non sia la risposta più vera alle nostre domande…
Che, insomma, ci sia ma poi, in fondo in fondo, è come se non ci fosse e ci appelliamo ad altro, consacrando qualcosa d’altro come nostra rupe di difesa e di conforto.
Capita pure di sostituire i puntini di sospensione con il verbo “preferire”. A Dio si preferisce ciò che è di Dio, dove “ciò” è rivestito di genere neutro. Sono le cose di Dio o le opere di Dio cui si riferiva il Card. Van Thuan, quando ricordava quella voce che gli era nata nel cuore una notte, in prigionia: “Perché ti tormenti così? Tu devi distinguere tra Dio e le opere di Dio. Tutto quello che hai compiuto e desideri continuare a fare… tutto questo è un’opera eccellente, sono opere di Dio, ma non sono Dio. Se Dio vuole che tu abbandoni tutte queste opere, mettendole nelle sue mani, fàllo subito e abbi fiducia in lui! Dio lo farà infinitamente meglio di te. Tu hai scelto Dio solo, non le sue opere!”.
È vero. A volte, si rischia di confondere Dio con le sue opere e preferire queste, consumando cuore, energie, tensioni e trovarsi delusi ed amareggiati quando le cose non vanno per il verso giusto o rattristati perché chi di dovere (e non è Dio) non ha notato il nostro impegno. Dio diventa la seconda scelta. Non la prima.
Vedete, ai puntini possiamo mettere verbi diversi. Sarebbe bello (ed onesto) fare un esame di coscienza e vedere quali verbi mettiamo. Solo per questo esercizio, ci sarebbe materiale sufficiente per tutta la Quaresima!
Dunque: attenzione a quei puntini di sospensione e alla mancanza del verbo. Non è casuale.
Ma del titolo notiamo anche il genitivo possessivo evidenziato in neretto: di Dio.
E questo genitivo ha due rimandi:
- anzitutto al primato divino nell’esistenza credente del discepolo,
- poi alla sua azione pre-veniente
- e alla sua iniziativa che coinvolge e chiede una disponibilità.
Dunque, “di Dio” rimanda a “ciò che Dio fa per me”.
Ma – e qui sta il secondo rimando del genitivo possessivo – ciò che il discepolo riceve da Dio modella e trasforma il suo cuore (se docile e disponibile), configurandolo al cuore di Gesù, con l’assunzione (non sempre facile) dello stile di Gesù, figlio di Dio.
In altre parole: ciò che ricevo non è mio (perché è di Dio) ma è in me come forza trasformante che configura a Gesù e al suo stile di misericordia e compassione.
Ciò che è suo, diventa anche mio.
Il suo stile diventa il mio, la sua sete/cura/attenzione per gli altri diventa anche la mia; il suo amore per il popolo diventa anche il mio; la sua docilità alla parola del Padre diventa la mia…
L’azione di grazia del Signore non esime dalla responsabilità dell’ascesi, se consapevoli che “l’ascesi non si misura sull’intensità dello sforzo o del sacrificio, ma sul dono di sé e sul realizzare l’immagine bella che Dio ha posto dentro di noi” (P. Bignardi, La grammatica dell’ascesi, Appunti personali dell’autrice).
Con queste attenzioni, viviamo nel concreto la proposta quaresimale 2017, impreziosita dal Messaggio di Papa Francesco “La Parola è un dono. L’altro è un dono”.
Don Marco