Riflessione di don Michele Gianola
«I regali di Dio sono interattivi e per goderli bisogna mettersi molto in gioco, bisogna rischiare […]. Quello che Gesù ci propone di scegliere è un seguire, come quello degli amici che si seguono, si cercano e si trovano per pura amicizia. Tutto il resto viene dopo, e persino i fallimenti della vita potranno essere un’inestimabile esperienza di questa amicizia che non si rompe mai».
(Francesco, Christus vivit, 289-290)
Osservare un bambino che impara a camminare riempie sempre l’animo di stupore; vederlo gattonare fino all’appiglio più vicino e impegnarsi con energia per drizzarsi in piedi, ammirare i suoi occhi spalancati sulla fiducia di chi lo invita. È meraviglioso, soprattutto, cogliere l’attimo in cui abbandona la stabile sicurezza della posizione acquisita per affrontare la vertigine del disequilibrio, quella condizione di precarietà che – sola – gli consentirà di compiere il primo e i successivi passi di tutta la vita.
Anche la vocazione è così, fin dal suo primo manifestarsi. Chiunque accompagna le scelte di qualcuno sa bene la pazienza nell’attesa della prima decisione, ne conosce l’ansia, il desiderio e la paura, ne gode quando il cammino e la via si orientano verso il futuro. Sa bene, anche, che la prima decisione non è sufficiente: per vivere ne occorrono altre e altre ancora perché la storia, sempre, presenta svolte, opportunità, sfide, inciampi, fatiche, occasioni da accogliere o rifiutare perché riconosciute buone, oppure no.
Si tratta di riconciliarsi con quella postura ‘precaria’ che è costitutiva della vocazione, così da poter rimanere aperti al continuo discernimento del bene da compiere nei propri giorni. Lungi dall’incrinare la definitività della scelta, la presa di consapevolezza della potenzialità del disequilibrio, al contrario, la rafforza, mantenendola aperta al dialogo con Dio e alla sua fecondità. «Quando il Signore suscita una vocazione – infatti – pensa non solo a quello che sei ma a tutto ciò che, insieme a Lui e agli altri, potrai diventare» (Francesco, Christus vivit, 289).
Precarietà porta nel suo etimo il riferimento alla preghiera; assumerne i tratti, dal punto di vista vocazionale, pone nella giusta posizione di figli, costringe – spesso nostro malgrado – a riprendere una onesta dimensione di sé, la misura vera delle cose, a lasciar andare, ad affidarsi al solo capace di provvedere la vita (Lc 12,27).
Precarietà, purtroppo, è anche sinonimo di smarrimento e di mancanza di futuro. Non può essere così! Servire la vita e la vocazione è lavorare perché ciascuno possa riconoscere e abbia le possibilità di orientarsi e realizzare la missione che è (Francesco, Evangelii gaudium, 273) a servizio degli altri. Di questo è necessario prendersi cura.