Dopo i festeggiamenti di tre anni fa, per gli 80 anni di consacrazione da parte del beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, anche quest'anno la comunità del Seminario fa memoria del lieto evento con una celebrazione mattutina (alle ore 7.30) nella grande Basilica, posta al centro dell'importante struttura di Venegono.
di Ennio Apeciti
Responsabile Servizio Cause dei Santi
Dalla decisione di abbandonare l’antico edificio di corso Venezia alla posa della prima pietra, dall’inaugurazione ai giorni nostri, in queste pagine ripercorre l’avventura del nostro Seminario monsignor Ennio Apeciti, attualmente Rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma.
Il 26 agosto 1926 il Visitatore Apostolico, l’abate di San Paolo fuori le Mura, dom Alfredo Ildefonso Schuster, lesse agli Educatori del Seminario di Milano ed all’arcivescovo Eugenio Tosi, una lettera di Pio XI: «Il Santo Padre, il cui nome, la cui vita è legata per tanti titoli al Seminario Milanese, desidera che nell’opera di ringiovanimento, di reviviscenza, di miglioramento da lui iniziata su larga scala nei Seminari della Penisola, quello di Milano, che è ancora il suo, come precede tutti per anzianità di origine, così sopra tutti s’innalzi per elevatezza di spirito e profondità di dottrina. Conservare soltanto è poco; la vita è qualche cosa di dinamico, e quindi è necessario che un istituto scientifico il quale voglia essere veramente tale, dilati ogni giorno di più le pacifiche conquiste della verità».
Gli inizi
Iniziava in questo modo l’avventura del Seminario di Venegono Inferiore, perché il primo passo di questo cammino consisteva nell’edificare una nuova e moderna sede del Seminario, abbandonando l’edificio di Corso Venezia, che mostrava tutti i segni dei suoi cinque secoli di esistenza.
Tra le trenta località visitate fu scelto Venegono, anche per l’accoglienza cordiale della popolazione e per il dono dei vasti terreni fatti, in particolare, dal commendator Molina e da don Ambrogio Trezzi, intraprendente coadiutore del piccolo paese, che sarebbe diventato grazie a lui famoso.
Fortunatamente, o provvidenzialmente, il giorno in cui il cardinale Tosi si recò a visitare il Belvedere di Venegono, il sole dardeggiava nel cielo terso e turchino, che permise di vedere al meglio della sua bellezza il Sacro Monte di Varese e la splendida catena delle Alpi, dominate dal massiccio spettacolare del Monte Rosa. La conferma di Tosi fu scontata, a conferma della scelta, già operata da Pio XI, che aveva già cominciato ad esaminare i vari progetti edilizi, uno dei quali, non a caso, si distende sulle robuste ginocchia del pontefice nell’imponente statua, che troneggia nell’atrio del Seminario.
Così il 6 febbraio 1928 fu posta la prima pietra del nuovo edificio e i lavori procedettero alacremente, mentre il cardinale Tosi si spegneva improvvisamente (7 gennaio 1929) e gli succedeva proprio il Visitatore Apostolico, il cardinale Schuster, che il 7 agosto 1930 con una commossa Lettera Pastorale annunciò che avrebbe atteso i seminaristi al loro rientro dalle vacanze estive per accoglierli personalmente sul colle di Venegono: «Cosicché, di là, attraverso una lunga catena di generazioni, escano sacerdoti illuminati e saggi, plasmati secondo il Cuore di Dio. L’amenità del colle, la salubrità dell’aria, l’incanto dello stesso panorama reso più sacro da cento e cento chiese e campanili, la solennità dell’edificio e l’austera semplicità del suo arredamento vogliono insegnare ai giovani leviti che le loro gagliarde energie vengono appunto consacrate al servizio della S. Chiesa Ambrosiana per la salvezza delle anime».
L’inaugurazione ufficiale del Seminario si tenne il 12 maggio 1935 con la dedicazione della grandiosa Basilica, vero cuore dell’edificio, alla Divina Sapienza con la lapide dettata da Schuster: «O Sapienza, che sgorghi dalla bocca dell’Altissimo, riempi della tua protezione (questo) Tempio […] perché (i seminaristi) come virgulti d’ulivo crescano in speranza per la Chiesa».
Il discorso ufficiale fu tenuto da un promettente professore, don Giovanni Colombo, che indicando la statua di Pio XI, concluse: «Qualunque giovane da oggi e per i secoli a venire, vorrà ascendere queste scalee grandiose verso il grandioso ideale del sacerdozio […] ricorderà l’austera parola di lui: “È meglio un solo sacerdote pienamente formato che quattro o cinque mediocrità”».
All’ombra dei santi
Il modello di sacerdote desiderato da Schuster mi pare sinteticamente espresso da quanto egli disse quasi come testamento ai seminaristi di Venegono il 18 agosto 1954: «Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione; ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega.
La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. […] Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi: ha paura, invece, della nostra santità».
Tre anni dopo quelle parole, il 17 novembre 1957 toccò al suo successore, Giovanni Battista Montini, il Beato Paolo VI, esortare con identica passione i seminaristi: «Voi siete chiamati a non avere una tranquillità sociale, una sicurezza economica, un nome onorato, un popolo fedele, ma ad essere missionari, cioè a soffrire l’ansia del bene altrui, a sentire salire nell’anima il desiderio di soccorrere, di essere utili, di consacrare la vita al servizio del prossimo, di darsi perché tutti possano avere ciò che noi possediamo: la fede, la speranza, la carità.
[…] Il senso della salvezza degli altri: ecco ciò che deve muovere la vocazione oggi! Il senso della dedizione al bene altrui: ecco ciò che deve formare la radice della vostra educazione, della vostra preparazione. […] Un sacerdozio calmo non è un sacerdozio vero; un apostolato tranquillo non è un apostolato moderno; una forma di vita ecclesiastica comoda non interpreta né il genio del Vangelo né i bisogni dei tempi! Siamo dei candidati ad una vita affannata, ad una vita tesa, ad una vita sacrificata».
Non diversamente aveva parlato ai preti in preparazione alla Missione di Milano un mese prima, il 22 ottobre: «Lasciamo che gli altri sorridano, vedendoci estatici e beati di questo amore! Il nostro cuore stretto e vecchio sarà forse capace di piangere, di esclamare, di invocare, di dire qualcosa di suo, di originale, qualche cosa che ancora non è stato espresso al Dio benedetto. E sarà l’eterna parola: “Signore, io ti amo!” (Gv 21,15). […] In questo mondo che non ama più e che si appesantisce ogni giorno nella sua civiltà di cemento e di assegni bancari, noi amiamo ancora la forza primigenia che viene dal cielo e nel nostro cuore arde il Dio-Amore».
Con grandi maestri
Se il Seminario di Venegono è cresciuto all’ombra dei suoi vescovi santi, fu fecondo per la presenza di grandi maestri della mente e dello spirito, tanto che nel campo teologico si parlò di Scuola di Venegono, per indicare la formazione che vi si riceveva. Che dire di Carlo Figini e di Carlo Colombo, discreti consiglieri di Paolo VI nella felice conduzione del concilio Vaticano II? E di Antonio Rimoldi, benevolo interprete della storia della Chiesa? E di Luigi Giussani, che parlò al cuore dei giovani
con intuizione singolare e profetica?
E di Giuseppe Colombo e dell’amico Giovanni Moioli? E di Giacomo Biffi, di Enrico Galbiati, di Luigi Serenthà, che infuse slancio rinnovato e intuizioni preziose per il futuro? “Padri” – come preferivano essere chiamati – grandi dello spirito plasmarono i cuori dei seminaristi di Venegono e il loro ricordo si fa benedizione: Enrico Motta, Ferdinando Baj, Giuseppe Zanoni, del quale ancora ricordo l’esame di coscienza cui educò generazioni di preti: «Ogni mia giornata devo viverla come Gesù, con le disposizioni, i sentimenti, lo stile di Gesù. […] Sono sempre a disposizione degli altri, staccato da me, sereno, sorridente ad ogni richiesta, anche imprevista? Sempre pronto ad entrare decisamente, ardentemente, interamente nei problemi e situazioni che mi presentano ed a farle mie?».
A questa scuola si comprende quanto disse il cardinale Giovanni Colombo a proposito dei preti ambrosiani che aveva contribuito lui stesso a formare nel solco dei grandi Rettori, da Francesco Petazzi ad Attilio Nicora, da Bernardo Citterio a Gianfranco Poma, da Giorgio Riva a Peppino Maffi, da Diego Coletti a Mario Delpini: «Clero animoso e concreto, lavoratore e realizzatore, povero e generoso, senza ambizioni di carriera e di titoli, amante dei fatti più che delle discussioni, vicino ai figli del popolo, alle loro gioie, alle loro pene».
Colombo così li preparò e li volle: «Giovani sacerdoti, realmente innamorati di Gesù Cristo e protesi a riviverlo; sacerdoti di molto sacrifico, di molta preghiera, di molta umiltà; appassionati a guadagnare a Cristo le anime dei ragazzi e dei giovani; maturi in quell’amore oblativo che trova più gioia nel dare che nel ricevere; sacerdoti che nelle ore degli insuccessi, degli abbandoni si sentono provocati ad amare con più forza e più purezza; che non s’accasciano mai per solitudine e tristezza, perché sanno che “il Signore è vicino”; che pur accogliendo tutto ciò che è retto, che è bello, che è veramente umano, sanno dare il primato all’“unico necessario”, e affidano il resto, appena è possibile, alla collaborazione dei laici».
In cammino verso il futuro
Dopo gli anni ardenti del Concilio, si distesero sul mondo, sulla Chiesa e, dunque, sul Seminario le inevitabili ombre che proprio il sole splendente genera sino a che non fiammeggia allo zenit. Così dovremmo guardare alla diminuzione del numero dei seminaristi e alla riduzione delle sedi sino all’attuale unificazione a Venegono: una crisi foriera di un nuovo rilancio, perché chi oggi vive – educa e insegna, studia e si forma – a Venegono, è animato da convinzione profonda e fede convinta.
A questo stile sono stati educati i preti del cardinale Carlo Maria Martini. La sintesi del suo sogno di prete è – per me – una pagina della Lettera Pastorale per l’anno 1999-2000 – Quale bellezza salverà il mondo? – che ci introdusse al Grande Giubileo: «Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo.
Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche. Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo: bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio. […] È bello cercare nella storia i segni dell’Amore Trinitario; è bello seguire Gesù e amare la sua Chiesa; è bello leggere il mondo e la nostra vita alla luce della croce; è bello dare la vita per i fratelli! È bello scommettere la propria esistenza su Colui che non solo è la verità in persona, che non solo è il bene più grande, ma è anche il solo che ci rivela la bellezza divina di cui il nostro cuore ha profonda nostalgia e intenso bisogno».
Non altrimenti si propose di educare i preti Dionigi Tettamanzi, il quale, riprendendo l’esempio di san Carlo, ricordò che il fine della formazione del Seminario doveva – e deve – essere quello di “legare” al Signore Gesù: «È l’amore appassionato a Cristo che genera, sostiene e porta a compimento il servizio d’amore dei presbiteri alla sua Chiesa, alle anime che sono loro affidate».
Il cardinale Scola, che ci ha accompagnato in questo cammino, ci ha detto: «La chiamata di Gesù costituisce una comunità di sequela. È una bellissima definizione del Seminario […] Il nostro essere insieme scaturisce dall’incontro con Gesù. Dal punto di vista della vita comunitaria questo significa che è Lui a metterci insieme, che è Lui a donarci gli uni agli altri. L’altro, pertanto, mi è donato e, proprio per questo, mi domanda una “stima previa” perché abbiamo in comune Cristo. Educarsi alla communio come caratteristica essenziale dell’essere cristiano è la strada che assicura l’unità del presbiterio per il futuro».